domenica 20 dicembre 2015

Le papacelle e l'insalata di rinforzo

Il Natale è prossimo e ripassiamo alcune nozioni sui piatti tipici delle festività natalizie, uno di essi, si prepara per il Cenone della Vigilia,  è l'insalata di rinforzo che tra gli ingredienti immancabili, senza il piatto non esiste, ha le "papacelle".  Attingiamo da Wikipedia, l'enciclopedia libera: L'insalata di rinforzo, in qualche caso anche denominata burdiglione, è un tipico piatto napoletano preparato nel periodo natalizio.Viene preparato con cavolfiore lessato, olive verdi, cetriolini, cipolline, giardiniera, peperoni dolci o piccanti (papaccelle), tutti sottaceto e acciughe sotto sale. Il tutto viene condito con olio, sale ed aceto.L'insalata di rinforzo è così chiamata[4] a Napoli in quanto pietanza servita originariamente durante il cenone della Vigilia di Natale, cenone notoriamente di magro, che anche quando comportasse pantagrueliche portate di pesce, si riteneva dovesse esser rinforzato con questa insalataPreparazione La materia di base è il cavolfiore. Dopo averlo pulito sotto l'acqua corrente, da esso vanno staccate le cimette e messe a bollire in acqua salata. La lessatura non deve essere completa e le cimette vanno scolate dopo 10 minuti circa e fatte raffreddare normalmente in un capace piatto da portata. Le cimette vanno quindi condite con cetriolini sottaceto tagliati a rondelle, capperi dissalati in acqua, papaccelle tagliati a listarelle, acciughe dissalate e deliscate, tagliate quindi a pezzi a metà o a terzi, con olive verdi e nere disossate o anche intere e con una giardiniera delicatamente sottaceto. Il tutto va irrorato da una mistura di 3 parti circa di olio di oliva e due parti circa di aceto. Il condimento va fatto in anticipo, per dar modo agli ingredienti di amalgamarsi bene con le cimette del cavolfiore. Infine si potrà portare in tavola e, se preparato con una certa abbondanza, l'insalata di rinforzo può essere mangiata il giorno dopo, quando il tutto avrà raggiunto il massimo della sapidità. A Napoli, in dicembre, ogni salsamenteria si dota di grandi quantità di giardiniera sottaceto e papaccelle preparati con una sapienza artigianale che difficilmente trova riscontro nella produzione industriale, al fine di soddisfare la grande domanda provocata dall'imminenza della festività natalizia.

Le PAPACELLE sono peperoni, dalle bacche piccole, un poco schiacciate e costolute (perciò si dicono ricce), molto carnosi e saporitissimi. I negozi di alimentari di una volta, le "poteche" della Campania, in particolare,  le bancarelle dei mercati partenopei, a partire dal mese di luglio fino ai primi freddi, traboccano di questi peperoni colorati. Solo i napoletani "veraci" di una certa età sanno distinguere a colpo d'occhio le autentiche papacelle ricce. I mercati sono invasi infatti da peperoni ibridi, pressoché identici morfologicamente alle papacelle di un tempo per lo più di produzione pugliese ma non sono la stessa cosa, addirittura nei negozi al Nord di specialità campane ( Vedi i punti vendita della mozzarella di bufala "La Contadina") si trovano "false" papacelle made in Puglia.  Non è difficile distinguere le vere papacelle, quelle "veraci": sono piccole, raggiungono al massimo gli 8, 10 centimetri di diametro. Le bacche hanno colori decisi che variano dal verde intenso al giallo sole (i frutti gialli sono generalmente più grandi) o dal verde al rosso vinato. La dolcezza della polpa è l’elemento peculiare che distingue la papacella da altre varietà di aspetto simile ma dal gusto decisamente piccante. Il profumo è particolarmente intenso, con note fresche ed erbacee. La semina può essere effettuata dalla seconda metà di marzo alla prima decade di luglio, mentre la raccolta, eseguita a mano, avviene dalla seconda metà di giugno ai primi di novembre. Io a settembre le compro negli ortofrutta specializzati, quest'anno le ho acquistate al Mercato di NOLA e provvedo personalmente a metterle sott'aceto. Se dovete acquistarle le migliori sono quelle fatte da aziende del nolano, di Marigliano e Pomigliano, in mancanza vanno bene anche quelle dell'agro sarnese-nocerino.  Gli orti in cui si coltivava un tempo la papaccella (le parule) si trovavano in particolare nelle vicinanze di Brusciano, dove molti abitanti hanno come cognome "Papaccio". Le coltivazioni erano localizzate nei pressi di masserie destinate alla produzione dell’aceto necessario per la conservazione: l'aceto si ricavava solitamente dal cosiddetto vino piccirillo, un vino rosso ottenuto da viti coltivate ad alberata (cioè appoggiate ad alberi vivi disposti in filari), aspro e poco alcolico, da consumare subito dopo la vendemmia. Il ciutunaro, così in dialetto si chiamava la persona che produceva le conserve, si occupava di immergere in aceto i peperoni e gli altri prodotti dell’orto all’interno dei cosiddetti rancelloni, sorta di botti in legno che potevano contenere fino a 150 chili di papacelle intere, mai a filetti. La Regione Campania ha recuperato il germoplasma e in un campo sperimentale si stanno riproducendo i semi originari che saranno messi a dimora dagli undici produttori del Presidio Slow food. E'stato inoltre stilato un severo disciplinare che garantisce una produzione di qualità elevata, con reali caratteri di ecosostenibilità ed ecocompatibilità.

Papacelle messe sotto aceto da me

Papacelle pulite dai semi

Papacelle acquistate al mercato di Nola messe sotto aceto da me 

mercoledì 16 dicembre 2015

Ricordi d’estate: “A’ sponza”

A’ sponza in dialetto napoletano indica la pannocchia. Viene consumata  d’estate, anche se oggi la si trova tutto l'anno nei supermercati ed i chicchi in barattolo ne hanno fatto un contorno diffuso, ma la vera è solo se viene consumata come cibo itinerante, servito da venditori ambulanti con carrettini, o in banchetti improvvisati agli angoli di  strada, sono diffusi a Napoli e nel napoletano, per ritrovarne di simili bisogna spingersi fino ad Istanbul, dove mi dicono si mangi la migliore “sponza”, prima bollita e poi girata sulla brace per arrostirla il tempo necessario a colorarla. E’ un cibo estivo, la pannocchia per prestarsi ad essere consumata come “sponza” va raccolta  quando il granturco è in maturazione, i chicchi devono essere ancora teneri, con  “il latte”, cioè quando l’endosperma è ancora nella fase di maturazione molto giovane, il cultivar è il mais dolce, detto “sugar and cream”. Fa parte dei miei ricordi d’infanzia e al pari dell’anguria, delle crisommole ( le albicocche), delle susine, delle more, era un atteso dono dell’estate, faceva parte di quei sapori estivi irrinunciabili. Da ragazzino ne ero goloso, ma mi era proibito acquistare quella venduta per strada dai venditori ambulanti, non ci si fidava della igiene e della genuinità del prodotto, saggio divieto, già allora erano diffusi i pesticidi e gli anticrittogamici, bisognava stare attenti a quello che si metteva sotto i denti, già dalla fine degli anni sessanta i frutti della terra cominciavano ad essere mele avvelenate. Si mangiavano quelle del nostro orto, per questo si piantavano un paio di filari di mais, degli anni la produzione era così abbondante che non le si consumavano tutte, non era un cibo ma uno sfizio, e  quando i chicchi erano maturati si facevano duri e diventavano mangime per le galline e per il maiale. La cottura è semplice, li si mette in acqua a bollire fino a quando non diventano buone da mangiare. 

Per chi volesse approfondire l'argomento granturco-mais rimandiamo al saggio di Michael Pollan "Il dilemma dell'onnivoro" - 2008 Milano





:....Il complesso edificio del supermercato americano medio, con la sua vasta possibilità di scelta, poggia su basi biologiche assai strette, una manciata di vegetali, tra i quali domina un'unica specie, Zea mais, un'erbacea di grandi dimensioni e di origine tropicale, al pubblico meglio nota come mais o granturco...

venerdì 11 dicembre 2015

TAGLIATELLE di Campofilone con pomodorini e' piennolo

Semplice come l'acqua, mentre le tagliatelle di grano duro, consiglio quelle di Campofilone, cuociono, schiacciate i pomodorini  e'piennolo direttamente nella padella, ideale quella di interno acciaio ed esterno rame,  aggiungete uno spicchio d'aglio senza togliere la camicia, irrorate di olio e.v.o., salate, mettete su fiamma vivace forte, con una forchetta pressate i pomodorini e saltateli, scolate le tagliatelle, nel frattempo sono cotte al dente, e aggiungetele nella






padella insieme ai pomodorini, continuate a saltare gli ingredienti fino a quando intorno alle tagliatelle si è attaccata una "cremina" di sughetto, versate nel piatto, e, se piace, aggiungete pecorino, senza esagerare, qualche foglia di basilico raccolta sul vaso in terrazza, se ce ne è ancora, i pomodorini e' piennolo si trovano all'inizio di autunno, quando ormai il basilico è finito, i migliori sono quelli della zona vesuviana, Somma vesuviana, S.Anastasia, sono i d.o.p., si trovano anche pomodorini provenienti dal casertano ma sono meno pregiati, appesi in terrazza, oggi 12 dicembre, ho ancora un grappolo di pomodorini rimasti da un "piennolo" di 4 kg, li ho tenuti per lo spaghetto della Vigilia di Natale, nelle foto si vedono pomodorini che ho cucinato in vasca "sottovuoto" a "bassa temperatura", tale sistema di cottura ne accresce la delizia all' "ennesima potenza", a "fine do' munno!".
 

giovedì 10 dicembre 2015

La nostra mission : DIETA MEDITERRANEA ONNIVORA  rivisitata "Zamlap" 

La "dieta mediterranea" (cereali integrali, pasta, legumi, frutta secca e fresca, verdura e olioextravergine d'oliva) è stata promossa a modello alimentare con provati effetti benefici ed efficaci su salute e longevità, studiato e copiato da tutto il mondo. Altro non è che cucina "povera" e prodotti del territorio, oggi indicati anche "a Km.0". Nel nostro caso il concetto di "territorio" va esteso all'Italia intera come miniera di eccellenze. La nostra mission - per dirla in linguaggio manageriale - è addentrarci nelle viscere della "miniera" e scovare il meglio del meglio. A pag.75 "L'Espresso" n.49 del 10 dicembre 2015 ci ricorda che...la dieta mediterranea traina il Pil...della Regione Campania....il patrimonio agroalimentare, una delle voci più importanti dell'export di questa terra...E accende i riflettori dell'italian sounding: prodotti che in tutto il mondo vengono spacciati per italiani ma che non lo sono affatto. Il nostro blog si è data l'ulteriore mission di contrastare l'italian sounding cioè
la copia servile e l'imitazione scadente, quando addirittura pericolosa per la salute, del prodotto italiano. Il metodo scelto per coltivare questo obiettivo è quello di scegliere e, quindi, recensire per le nostre realizzazioni gastronomiche e culinarie prodotti e produzioni agroalimentari di sicura "italianità"  che cioè danno garanzia di provenienza dal territorio italiano, 
genuinità e controllabilità della filiera, garanzia di salubrità, autenticità storica della produzione, versatilità in cucina e facilità di uso e combinazione alimentare, risultato ottimale e resa equilibrata alla cottura e all'elaborazione culinaria, gradevolezza e gradimento al gusto, all'olfatto e alla vista; giusto rapporto prezzo/qualità.

Dal sito dell'Ufficio Italiano Brevetti e marchi: Direzione Generale Lotta alla Contraffazione:  Il patrimonio agroalimentare italiano è unico al mondo per qualità ed assortimento. La cultura gastronomica e i prodotti agroalimentari italiani sono famosi ed apprezzati dai consumatori di molti paesi. Come conseguenza di questa popolarità, è cresciuta via via negli anni un’economia parallela che, sottraendo quote di mercato ai prodotti tutelati, determina pesanti danni alle aziende italiane. Tale fenomeno, è conosciuto come “Italian Sounding”, ovvero l’utilizzo di denominazioni geografiche, immagini e marchi che evocano l’Italia per promozionare e commercializzare prodotti affatto riconducibili al nostro Paese. Esso rappresenta la forma più eclatante di concorrenza sleale e truffa nei confronti dei consumatori, soprattutto nel settore agroalimentare.
A livello mondiale, il giro d’affari annuo dell’Italian Sounding è stimato in circa 54 miliardi di euro l’anno (147 milioni di euro al giorno), comunque oltre il doppio dell’attuale valore delle esportazioni italiane di prodotti agroalimentari (23 miliardi di euro). Quindi, almeno due prodotti su tre commercializzati all’estero si riconducono solo apparentemente al nostro Paese. 
Le aziende estere che utilizzano impropriamente segni distintivi e descrizioni informative e promozionali che si rifanno in qualche modo al nostro Paese, adottano tecniche di mercato che inducono il consumatore ad attribuire ai loro prodotti caratteristiche di qualità italiana che in realtà non posseggono, concorrendo slealmente nel mercato ed acquisendo un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza non solo italiana. 
In Italia vigono regole rigide sulla produzione agroalimentare, il cui obiettivo è quello di tutelare l’alta qualità dei prodotti oltre che la salute dei consumatori. “Made in Italy”, quindi, sta ad indicare non solo un prodotto di qualità, ma anche un prodotto sicuro. Gli altri prodotti, apparentemente italiani, non possono, in principio, ritenersi comunque tali.


     La cucina "povera" è cucina "zamlap", i principi "scientifici" guida sono gli stessi: ridurre il complicato al semplice e massimo risultato con minimo mezzo. 
Per i nostri gusti la "dieta mediterranea" è limitativa e limitante se di stretta osservanza cioè solo cereali integrali, pasta, legumi, frutta secca e fresca, verdura e olio extravergine d'oliva. Questa riduzione è  contraria allo speculare principio "zamlap", tratto dall'apostolo San Paolo: "Esaminate tutto e trattenete ciò che è buono". Per questo motivo la dieta mediterranea va completata "zamlap" con il sostantivo di onnivoro. L'elemento unificante resta la territorialità "mediterranea" dei prodotti, lo stile di combinazione degli ingredienti nella realizzazione delle pietanze, il sistema di cottura a "bassa temperatura" degli alimenti, per il resto tutto è lasciato alla libera sperimentazione "zamlap".   

mercoledì 9 dicembre 2015

Della serie: "Non si getta via niente"

CUCINA BASSA per viscere popolari 

O' pere e o' musso


Della serie: "Non si getta via niente" - CUCINA BASSA - per viscere popolari 
O' pere e o' musso, un piatto fatto di scarti, di quello che restava dalla macellazione di bovini, suini ed ovini dopo aver separato le carni composte di muscoli, grasso e parti pregiate, restavano le parti cartilaginose, quelle addirittura immonde, non si gettava via niente, si rendevano appetibili per l'onnivoro per eccellenza, l'uomo della strada, quanto non era degno di essere portato alla tavola delle classi alte, dei benestanti veniva lasciato al popolino ed è questa l'origine dell'autentico cibo "da strada", chi non aveva né casa né mensa viveva per strada e si nutriva di quello che offriva la strada, buono per ogni stagione, ricco di collagene ed elementi antinfiammatori, apprezzato dai ZamlapBuongustai più coraggiosi e spregiudicati, è inutile cercarlo all'angolo delle strade del Nord Italia, bisogna spingersi in Campania, a Napoli e nella zona dell'agro sarnese-nocerino, ma fornisco anche la ricetta per chi volesse prepararlo a casa..

Commento dell'amico Franco Lemba Gustoso saporito stuzzicante originale raro invitante ...acquistato e mangiato sulle laparelle accompagnato con una birretta è una vera goduria e piacevole e'anche fermarsi a mangiare panzarotti i pizzelle alla vicina laparella che a volte vende i famosi scagnuozzi. Senza esagerare però. Ah ah ah ah!!!
I cibi umili sono quelli che vengono dalla cucina "bassa", quella del popolo, recuperata dagli scarti, fatta di quello che rifiutavano o veniva scartata dalle classi "alte". Uno di questi è "O' pere e o' musso", un antico cibo da strada campano, tipico in particolare dell'agro nocerino-sarnese. La dizione cita solo due degli ingredienti tipici del piatto o' pere ( il piede del maiale) e o'musso ( il muso del vitello) ma a questi ingredienti principali possono aggiungersene altri: i quattro stomaci della vitella ( tra cui la trippa), la mammella ( a' zizza)  della mucca da latte, l'utero della vitella, il retto della vitella, la lingua, le budella. Tali frattaglie vanno portate alla bocca  prese con le mani dal coppo ( o'cuoppo)  o dal foglio di carta paglia dove adagiate vengono spruzzate con abbondante limone della costiera e cosparse di sale utilizzando il tipico corno di bue bucato in punta  La ricetta completa del piatto, per chi volesse cimentarsi nel realizzarlo, ( comunque, in privato, posso dare anche indicazione di "carnacuttari" dove reperirlo già pronto), ritengo sia quella pubblicata sul sito "Il progresso veterinario" del FNOVI rivista on line n.08/15 agosto 2007 LXII:...Basti pensare al prodotto denominato “O’ pere e O’ muss” che viene venduto e quindi consumato da almeno trecento anni senza aver mai provocato inconvenienti sanitari. I ricercatori dovranno analizzare i rischi (HA) e poi consigliare tecniche, manualità idonee a ridurli o annullarli. Nel territorio afferente l’ASL SA/1 esiste una antichissima tradizione artigianale per la produzione di “O’ per e O’ muss” ed insistono anche alcuni laboratori già autorizzati ai sensi del D.lvo 537/92 per la produzione di tali prelibatezze. Alla luce di quanto esposto in precedenza e visto che non esistono pubblicazioni specifiche in merito ci è sembrato opportuno approfondire prima la tecnologia di produzione ed i punti critici e poi i reali rischi microbiologici di tale prodotto. Storia Su antichi libri di ricette gastronomiche regionali, si legge che alla fine del settecento i poveri, un po’ in tutte le regioni d’Italia dal Piemonte alla Sicilia, dalla Toscana alla  CamAngelo Citro Giulio Salvati Bruno Giovanni ASL SA/1 08_agosto_2007_DEF.qxp 26-07-2007 9:55 Pagina 377 8 / 378 pania, bollivano i piedi e le teste e poi li mangiavano tal quale o con salse varie, e ottenevano pietanze che piacevano anche ai ricchi. Un tempo i piedi e le zampe dei bovini venivano consumati solo in strada, ed il venditore era chiamato “o carnacuttaro” ovvero il venditore di carni cotte. Oggi gli avventori possono acquistarlo anche presso rivendite con sede fissa e spesso viene accompagnato a pezzi di trippa cotta con olive e lupini, nella carta oleata modellata a mo di “coppo” con il palmo della mano o in apposite vaschette di plastica, il tutto condito con sale e limone. Un prodotto simile è la “testina di vitello”, una specialità gastronomica tipica del Piemonte consumata soprattutto nel periodo autunnale-invernale che entra a far parte di un piatto tipico della cucina regionale cosiddetto “bollito misto alla Piemontese”. Descrizione del prodotto È un prodotto tradizionale che si vende in negozi o in strada su “bancarelle” o “furgoni” appositamente attrezzati e viene consumato cotto, tagliato in listarelle sottili con l’aggiunta di sale, pepe e limone. Il prodotto rientra nella categoria dei “ready to eat” (reg. 2073/05) e consiste “o’ muss” nella parte anteriore dello splancnocranio sezionato anteriormente all’altezza della linea frontale posta davanti agli occhi comprendente la mascella, il palato molle, il labbro superiore ed inferiore, le narici e la porzione molle inferiore della parte anteriore della cavità buccale il tutto completo di pelle. “O’ per” invece è costituito dalla porzione distale dei quattro arti dalla prima alla terza falange privati dello zoccolo, comprendente anche la porzione anatomica dell’osso cannone sempre con la pelle. Queste parti anatomiche vengono lavate, messe a mollo, scottate, depilate e poi cotte a temperatura di circa 98 °C per 2 o 3 ore. Una volta pronti e raffreddati all’esterno si presentano di colore più o meno chiaro (a seconda del colore del mantello del bovino, infatti si preferiscono animali a mantello chiaro che risultano più facili da rifinire) roseo ambrato, ed al tatto la pelle è asciutta mai viscida, alla sezione di taglio si riconoscono le strutture cartilaginee bianco traslucido, elastiche al tatto, le strutture muscolari rosa scuro, la pelle bianco giallastra il grasso più chiaro ed il sottocute sempre di colorito chiaro. Il profumo è piacevole di carne cotta, mai pungente, fresco; il sapore non è mai deciso si sente un pò il sapore della carne bollita, la consistenza è elastica, le parti più apprezzate sono le cartilagini croccanti tra i denti, anche la pelle ha una piacevole consistenza. Quadro normativo Gli stabilimenti per la produzione dei piedi e muselli rientrano in quelli autorizzati ai sensi del Decreto Legislativo 537/92 ed ora registrati ai sensi del Reg. CE 853/04. Importantissime per questo settore sono state le modifiche al Reg. CE 853/04 apportate dal Reg. CE 1662/2006 del 6 novembre 2006 e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea il 18.11.06 che all’allegato II al punto 1 reca le modifiche del punto 8 della sezione 1, capitolo IV del sopracitato Reg.CE853/04 che consente di non scuoiare le teste dei vitelli, il muso e le labbra dei bovini e le zampe dei bovini così da facilitare il commercio e la lavorazione al di fuori dei macelli. Gestione del MSR Ai sensi del D.lvo 286/94 le teste dovevano ed ora ai sensi dei nuovi regolamenti devono essere lavorate in locali o zone separate della sala macellazione. Le teste dei bovini utilizzate, sono sempre di animali di età inferiore ai 30 mesi, appena staccate vengono appese singolarmente a dei ganci previa apposizione di un tappo nel foro frontale provocato dal proiettile captivo e di un altro nel foro ocipitale. Bisogna prestare molta attenzione all’integrità dei bulbi oculari per evitare la contaminazione delle carni. Dopo la visita sanitaria le teste possono essere lavorate; vengono cioè scuoiate completamente lasciando integra la pelle sul musello, poi con apposita cesoia idraulica si asporta con un taglio netto perpendicolarmente qualche centimetro davanti agli occhi, il neuro cranio avendo cura poi di allontanare i masseteri. Oggigiorno con l’avvento dei nuovi regolamenti si continua ad operare similmente ai dettami del D.lvo 286/94 e per quanto riguarda la prima fase della lavorazione (depilazione) diventa più facile infatti mentre prima non era consentito lavorare i piedi e muselli con il pelo fuori dal macello; ora è possibile, manipolandoli ovviamente in modo da evitare contaminazioni e mantenendo sempre la tracciabilità. I piedi anteriori e posteriori, asportati sulla linea di macellazione vengono deposti in un cassone metallico in acciaio inox e poi vanno in sala tripperia per la pulizia. Tecnica di lavorazione Possiamo dividerla in due fasi principali: A) Scottatura e depilazione B) Cottura e raffreddamento Scottatura e depilazione  Tali operazioni possono avvenire presso le strutture di macellazione o direttamente presso i laboratori autorizzati. Dopo aver pulito con acqua fredda a pressione i piedi ed i muselli, vengono immersi in vasche di acciaio inox con acqua corrente per almeno 2 o 3 ore così da allontanare residui di sangue e sbiancare il prodotto. Questa fase è identica per i due prodotti. I piedi vengono legati a due a due e posti su delle aste metalliche poggiate sui bordi di una caldaia piena d’acqua che sarà riscaldata fino a circa 60-65 °C per almeno 20 minuti fino a quando il pelo si allontana facilmente dalla cute. A questo punto i piedi ancora caldi vengono passati sotto una apposita “fresa” in acciaio inox per la depilazione meccanica per poi essere rifiniti manualmente prima con un coltello affilato e poi con una lametta da barba; poi si asportano gli unghioni con una macchina a rulli contrapposti in acciaio inox azionata a pedali. I piedi depilati vengono immersi in acqua fredda per alcune ore. Lo stesso procedimento si applica anche ai muselli che vengono appesi per il naso singolarmente, sempre a delle aste metalliche poggiate ai bordi di una caldaia piena d’acqua e si continua come per la procedura dei piedi. La lavorazione può riprendere presso il macello o il materiale depilato può essere spedito presso un laboratorio autorizzato per il prosieguo. In questa fase bisogna controllare che: a) venga effettuato un buon lavaggio dei piedi e dei muselli e bisogna eliminare le impurità ancora eventualmente presenti sul pelo; b) legare saldamente le parti anatomiche per evitare che si stacchino e sbattino all’interno della caldaia rovinandosi; c) monitorare la temperatura dell’acqua di scottatura che non dovrà essere né troppo calda né troppo fredda altrimenti il pelo non va via; d) durante la depilazione non si deve lacerare la pelle; e) il trasporto e la lavorazione deve avvenire i tempi brevi altrimenti bisogna assicurare una buona refrigerazione. Cottura e raffreddamento Prima della cottura bisogna asportare le ossa lunghe dalle zampe tramite un doppio taglio longitudinale e solo allora si potrà procedere alla cottura, lasciando le ossa in sede si deformerebbero i piedi durante la cottura. La lavorazione riprende immergendo i piedi ed i muselli in due caldaie differenti colme di acqua che viene riscaldata fino ai 98 °C. La cottura dei muselli avviene in circa tre ore dall’accensione della fiamma. Una volta raggiunta la temperatura di ebollizione intorno ai 98 °C, si lascia semplicemente cuocere. Appena terminata la cottura, con una schiumarola viene preso un musello per volta e calato in una vasca in acciaio inox con acqua fredda e prima che il musello si raffreddi si asportano manualmente le ossa mascellari e nasali. Il musello dissossato, dopo un breve risciacquo, viene trasferito in una vasca con acqua corrente e lasciato raffreddare per circa due ore. In seguito, su di un tavolo di acciaio, viene rifilato e pulito da eventuali ossicini e residui, poi sosta nuovamente in acqua corrente per altre due ore circa ed infine, viene stoccato in frigo in un contenitore con acqua ad una temperatura compresa da -1 a -2 °C. La cottura dei piedi avviene in tempi leggermente più lunghi e necessita di maggiore attenzione rispetto a quella dei muselli, infatti appena raggiunta la temperatura di ebollizione dell’acqua (98 °C), si spegne la fiamma fino a quando la temperatura dell’acqua si abbassa intorno ai 90 °C, poi si riporta la temperatura a 98 °C. Tutto il procedimento di cottura si svolge nell’arco di tre o quattro ore, a secondo della temperatura ambiente, e della grandezza dei piedi con delle pause di 20/30 minuti dallo spegnimento alla riaccensione della fiamma.A cottura ultimata, i piedi, vengono raffreddati in acqua corrente per almeno due ore così da facilitare la successiva asportazione degli ossicini; asportandoli a caldo si modificherebbe la forma del piede, ma sarebbe anche complicato e pericoloso per l’operatore che rischierebbe di tagliarsi. Questa operazione avviene su di un tavolo in acciaio inox su di un supporto in “teflon” per evitare che “il piede” possa scivolare e mettere a repentaglio l’incolumità dell’operatore. In questa fase bisogna: a) monitorare la temperatura dell’acqua di cottura c.a. 98 °C (+- 2 °C) b) evitare la contaminazione del prodotto cotto in corso di raffreddamento e stoccaggio. Monitoraggio dei punti critici Il monitoraggio e quindi il controllo dei parametri tempo/temperatura consentono di ridurre o annullare eventuali rischi microbiologici, infatti la temperatura dell’acqua di cottura attentamente monitorata per molte lavorazioni è sempre risultata compresa tra i 95 °C ed i 98 °C (+- 2 °C), per tempi di almeno tre ore; anche il processo di depilazione riduce di molto la contaminazione superficiale, 63/65 °C per circa 20 minuti. Il pH (7,2-7,3) del prodotto cotto è un handicap per la conservazione. La conservazione in acqua fredda consente di mantenere una sorta di “sottovuoto” e una buona umidità del prodotto intero, una volta tagliato va consumato nel giro di massimo 24 ore perché si asciuga superficialmente ed assume un cattivo odore. - T °C scottura e tempo (CP) - T °C cottura e tempo (CCP) - Raffreddamento e stoccaggio in acqua fredda (CP) Conclusioni Lo studio della tecnologia di produzione di “O’ per e o’ muss” ha evidenziato: a) il prodotto subisce due trattamenti termici, il primo con temperatura compresa tra i 63/65 °C per circa 20 minuti per facilitare la depilazione, il secondo che è la cottura vera e propria ad almeno 95°C per circa tre ore; b) viene venduto in massimo due o tre giorni, tenendolo a temperatura di refrigerazione, quando in realtà il prodotto dura molto di più; tali procedure consentono di ridurre notevolmente i rischi microbiologici per il consumatore. I risultati dei controlli analitici effettuati fin’ora sul prodotto in varie fasi di produzione sono stati più che accettabili, e sono ancora in corso ricerche sugli aspetti microbiologici del prodotto nelle varie fasi di produzione e della vendita, quest’ultima anello debole dell’intera filiera. Il prodotto crudo presenta alte cariche microbiologiche sicuramente migliorabili con più adeguate procedure (BPL) nel prodotto cotto non abbiamo mai rinvenuto patogeni (Salmonelle e Listeria) e sempre una scarsissima CBT e E.coli. Bisogna sottolineare infine che statisticamente, non ci sono dati epidemiologici, né referti o notizie relative a tossinfezioni alimentari o incidenti relativi al consumo di tale prodotto. La bibliografia e le tecniche di produzione sono disponibili sul sito www.ilprogressoveterinario.it














martedì 8 dicembre 2015

Un uovo e 1/2 ( uovo di gallina + uno di quaglia) al bacon

Una cena semplice, in un pentolino di rame senza condimento aggiunto adagiare tre fette di bacon, appena cominciano a sfrigolare aggiungere l'uovo di gallina e quello di quaglia, coprire con un coperchio, dopo cinque minuti allorché le uova si sono vestite in camicia toglierle e porle in un piatto caldo, lasciare ancora il bacon fin quando diventa croccante, toglierlo dal pentolino e metterlo a fianco delle uova, pepare senza salare, per il sale basta quello rilasciato dal bacon, accompagnare il pasto con una birra scura.    

lunedì 7 dicembre 2015

RISO all'indiana CON BROCCOLO DI CREAZZO
ed aggiunta di Riso selvaggio cotto alla turca 

Cuocere il riso, di qualità basmati ( va bene anche un carnaroli o un vialone nano)  "all'indiana" ( bollire il riso, al dente, scolarlo e lavarlo con acqua bollente, asciugarlo un attimo al forno rimestandolo in modo da mantenere i chicchi staccati), aggiungere il broccolo di Creazzo spezzettato e già cotto "stufato" con aglio e peperoncino, mescolare con riso "selvaggio" bollito dolcemente, cioè fino a quando non avrà assorbito tutta l'acqua di cottura. Se necessario aggiungere un filo d'olio e.v.o. a crudo.